Valeria De Luca

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Lacci

8 marzo 2013 by Valeria 2 Comments

Oggi

Ancora un po’ di tempo e non saprò neppure chi sono. Non riconoscerò i loro volti. Se prima mi davano nausea, fino alla rabbia, proverò disinteresse. Passaggi graduali, la volontà non c’entra.
Passano nei corridoi e hanno sorrisi composti. Io no! Non ho ancora imparato a misurare le emozioni. Ogni volta so di aver mancato il movimento, di un millimetro accidenti. L’errore mi disturba e non perché abbia sogni d’ascesa. Sento che la scelta del limite è un talento che non possiedo. Loro sì, i confini li conoscono a perfezione. Anche nelle circolari che scrivono, nel labirinto di ragioni che esigerebbe ad ogni riga una spiegazione in più, o un interrogativo in più, sanno dove posare le armi. Sanno contenere l’ansia di sapere. No, io no!
Attratta dalla metà disciplinata del mondo, mi sono forzata ad inseguirla. Ma una volta raggiunta, giusto allora, ho dovuto invertire la rotta.
Se mai avete invertito una rotta… non vi è successo che la vita si sia ridotta alla sequenza di poche immagini? Il più breve film mai visto non è il vostro?

Primo giorno di lavoro

Un film girato nei pressi del portone d’ingresso, sotto l’incisione Banca d’Italia. Non era la mia terra promessa. Mentre mettevo ordine sulla scrivania, il primo giorno, lo sapevo già. Quando si passa una linea ci si imbatte in delle cose che stanno di fronte, di lato, dietro, e ti guardano. Aspettano che ci soffi dentro l’avventura. Ma per passar loro il respiro le devi volere. In quel giorno, proprio all’apice della mia conquista, mi resi conto di non farcela. Rimasi a lungo a toccare le cose. Era sera, i colleghi già tutti via. Tra le luci al neon dei corridoi, dalla prospettiva della mia postazione, il gioco delle ombre e del silenzio faceva strani scherzi. E una vetrina della libreria dirimpetto rifletteva un’immagine di me, appena definita:
– Virgì che c’è?- faccio io. Ma l’ombra non mi risponde, pare stanca. – Sei triste Virgì?-
Non mi arrendo a fissare la vetrina mentre un’ansia improvvisa mi invade. In preda all’emozione la memoria antica riaffiora. Mi riappaio io a pochi anni, insieme alla mia famiglia.

Infanzia

Era mattina e la casa scoppiava di frenesia. Padre, madre, sorella e donna di servizio correvano mentre una bimba di nome Virginia si tratteneva in angoli solitari. Si vestiva in segreto e si guardava a lungo. Sul corpo senza curve stirava e ristirava con le manine la biancheria, fino alla perfezione. Badava che le maniche dei vestiti scendessero esattamente sui polsi e logorava gli occhi nella correzione del centimetro. In ultimo, si sfiniva nell’allacciare le scarpe. Come fossero un’opera d’arte. Iclassici modelli semiortopedici a due file di buchi, dentro cui passavano i cordoncini. Era abile nel fare il fiocco, lo lasciava fiorire lentamente. Nessuno in casa aveva voglia di precisione e lei neanche sapeva da dove le nascesse quest’ossessione. Il tempo, per gli altri, era un lusso di cui non poteva disporsi: bisognava gettarsi nel giorno, risolvere difficoltà concrete, quelle ossessioni stavano altrove e gli altri parevano non accorgersene. Succedeva, però, che certe mattine la sua abilità non bastava. I cordoncini non si addomesticavano. Virginia si trascinava nel mezzo con gli occhi in cerca d’aiuto.

Giovinezza

Con quegli occhi un giorno partì. A fatica. Sarebbe rimasta chissà quanto a illudersi di disciplinare sogni nelle stanze di casa sua. Ma un giorno partì. E perse qualcosa che scomparve inavvertitamente, con l’infanzia: il suo tempo. La trincea dei corridoi pian piano si assottigliò. Non ebbe più luoghi dove nascondersi, non resistette a lungo alle ragioni degli altri. A malincuore e senza convinzione entrò nella corsa. Niente più pause, e neanche un corpo da guardare.
Cominciò l’agonia. Ne trovava le tracce sui volti dei coetanei, scavati dall’ansia di realizzarsi. Ma realizzare che cosa? cominciò a pensare. Avvertiva strane cose, si sentiva precipitare dentro un imbuto, come olio nel piccolo cerchio della realtà.
Quando un giorno incontrò, nel mezzo affollato di un corridoio, il prof. Verri. Lo incrociò in Università. Il professore aveva un abito scuro e una camicia bianca perfettamente azzeccata. Certi particolari nascono dal dolore, aveva pensato. E aveva un accento diverso, veniva da certi luoghi più a sud, e una specie di nostalgia stirata addosso, che immaginava fosse per la lontananza dalle sue abitudini. Ma si accorse presto che si  sbagliava. E fu per lei quello che Virgilio fu per Dante all’Inferno, o forse di più, la sua Beatrice, fu un amore medioevale.
Alla fine dell’anno accademico, invece di fermarsi a parlare di libri il professore la invitò per un tè.
– Sai, Virginia, sto per lasciare l’Università -.
– Prof ma che dice?-
– O adesso o mai più! Diciamo che è un anno sabbatico che tenterò di allungare quanto potrò. Devo vedere cosa succede veramente dei fatti di cui scrivo. Me ne sto qua, al riparo, ma non si può stare sempre al riparo, devo andare via -.

Primo giorno di lavoro

Specchiandomi nella vetrina, ripenso a quelle parole di Verri sull’andar via. Già, andar via. Ma qual è il tempo di farlo? mi sussurro. Faccio uno sforzo di memoria e non ci metto tanto ad abbracciare tutta la mia vita. Le cose vissute sono diventate poche, in quei minuti, sono il trascolorare di una giornata.
-Qual è il tempo giusto?-
Improvvisamente l’ombra mi parla:
– Il tuo tempo – mi risponde senza peli sulla lingua.
Allora rimbalzo indietro. Prima sulle parole ascoltate dal professore a mezz’orecchio, in quel pomeriggio lontano, e poi ancora più indietro. Risento la ruvidezza dei lacci sotto i polpastrelli ancora teneri di bambina.
-Ma il fiocco non è riuscito… – le mie piccole labbra rosse protestano.
-No Virgì, non è così!- ribatte l’ombra.
Riaffondo dietro le pareti della casa d’infanzia. Anche lì è buio, e sono sola. Sudata. È tardi. Sento i passi degli altri che si risolvono per l’uscita. Vorrei seguirli, ma non posso, non sono arrivata alla fine. Qualcuno mi urla che verrà a prelevarmi a forza se non mi sbrigo. Mi piacerebbe dividere la fatica della ricerca, ma è tardi, allora lascio tutto così com’è. Sono già per strada, cammino svelta, anche più degli altri.
-Quindi, che mi dici del tempo?- ribadisco all’ombra.
-è difficile aspettare – l’ombra afferma sicura.
La vita si consuma tra le attese a le uscite, tutto sta nel rispettarne l’ordine.
Oggi so che si comincia un esodo quando si perde l’equilibrio. E l’equilibrio dura finché c’è tanto futuro davanti, finché la vita è ancora nell’immaginazione. Il tempo del non realizzato accoglie. Protegge. Poi, tutt’a un tratto, quello che pareva si dovesse realizzare si realizza. Si realizza e crolla.

Giovinezza

– Virginia calmati… – le fa Verri quel lontano pomeriggio in cui anche lei ha approfittato a vuotare il sacco – Vuoi mettere essere arrivata a comprendere come stanno le cose? Senza nemmeno una ruga sul viso?- E mentre lei riprende a respirare: – I lacci, te li ricordi?-
– In che senso, prof?-
– Nel senso che avevi indovinato che nella vita c’è qualcosa da guardare! Così che hai detto, no? Giusto. I lacci vanno bene, la verità. La tua. Non vanno bene gli angoli solitari, però, non va bene la colpa –
– Che colpa, prof?-
– E perché stai nascosta, a cercare?-
– Nascosta io?-
Dopo quelle parole iniziai a preparare il mio esodo. Non da casa, da casa ero già andata via da un po’, ma da un nascondiglio più segreto ancora: dalla paura che le mani non arrivassero a formare il fiocco. E a proposito della paura, quel pomeriggio Verri mi raccontò una storia, come usava fare a lezione…

Un forestiero bussò alla porta di un re. Il forestiero aveva un male sconosciuto e siccome il re era buono lo trattenne presso di sé per curarlo. Un giorno che erano diventati già confidenti, tanto da essere preferito a tutti i cortigiani, il re gli chiese:
– Perché, amico mio, sei diventato un viandante? –
E quello gli svelò che anche lui era stato un re e aveva amministrato il suo regno secondo gli insegnamenti degli avi. Ma una notte il regno fu preso d’assalto. Quando la battaglia era terminata, dal punto aperto della muraglia dove il nemico aveva fatto breccia, lui vide in lontananza, sui cavalli in corsa, i mantelli rossi dei nemici scampati alla cattura. Sventolavano. Si gonfiavano e sgonfiavano.
– …erano come enormi cuori pulsanti. E io, invece, sentii di essere fermo nel mio regno…-
Il viandante era stato un uomo di scienza (scienza dell’anima) oltre che un re, perciò non si diede pace dopo quella visione. Finché un giorno intuì:
– …fu allora – confidò al re che lo ospitava – che sentii che ognuno si nasconde perché espia una colpa antica. La colpa originaria: cercare se stessi… –
E nel buio di quella notte il re scienziato lasciò il suo regno e ogni scienza nota e s’incamminò come viandante, con la sua colpa, proprio un attimo prima che l’ultima pietra richiudesse la muraglia…

Oggi

A tratti mi giro verso le finestre, quando lavoro. Controllo se un collega ha avuto la buona idea di aprire uno spiraglio. No. Eppure dalla strada sta salendo un misto di voci. Quel chiacchiericcio d’inizio estate, quando la temperatura dell’aria va pareggiandosi a quella del corpo. E di colpo mi sorprendo, mi sembra di vedere il punto aperto della muraglia da cui uscirò. È arrivato il tempo. A mesi oramai, a giorni forse. Lascerò il regno. La vetrina non rifletterà più il mio viso triste, le concederò un ultimo sorriso d’addio.
Allora comincia un’osmosi tra dentro e fuori, tra sogno e realtà. Respiro e, sotto lo sguardo di Verri, inizio a guarire.

Filed Under: Racconti

Comments

  1. alessia says

    8 giugno 2013 at 12:46

    il viaggio……..

    Rispondi
    • Valeria says

      25 luglio 2013 at 14:46

      Già… a lungo ho preparato questo viaggio senza ritorno… chiamato “Libertà”… Ho respirato, e sono partita.

      Rispondi

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