Valeria De Luca

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O’scià

8 marzo 2013 by Valeria 12 Comments

onde

Sono orfana, da meno di un mese. Ho diciannove anni. I miei sono morti in un incidente aereo, un piccolo velivolo che attraversava le isole del Pacifico. Mi hanno lasciato un patrimonio enorme, una posizione invidiabile nella Milano che conta. Già, dico proprio Milano… città cinica, dove anche la morte si pesa sulla bilancia dei lasciti testamentari. Ma tra i lasciti, c’era un segreto.

Il notaio mi ha chiamata, – passi allo studio, ho da metterla al corrente di una faccenda riservata-. Ho attraversato con lo scooter il centro già infuocato dal primo caldo estivo. Palazzi austeri si susseguivano, mi chiudevano ogni visuale del mio prossimo futuro. Ho parcheggiato e sono salita con indolenza su per le scale lussuose di un condominio in via Meravigli. Nessun segno di vita, il lusso rendeva simili tutte le porte intarsiate, le voci non trapelavano, rivestimenti speciali isolavano la vita. Sono entrata nel tempio di quel sacerdote del diritto. Al suo comando, segretarie efficientissime e curate quanto modelle, che smistavano il traffico degli affari, portarono nella stanza affrescata nella quale fui ricevuta una busta di lettera, e poi un altro foglio inguainato in una custodia di plastica.

Il notaio, un venerando di settant’anni ma tirati alla perfezione, mi disse con estrema calma e precisione che l’uomo morto nell’incidente aereo in realtà non era mio padre, seppure per la legge lo fosse. Che mia madre custodiva un segreto, che si proponeva di dirmi solo alla sua morte. Ora era il momento! Ero stata concepita a Lampedusa. – Scusi, dove? – chiesi io in un sobbalzo di shock.

Sì a Lampedusa, mi rispose con tranquillità, io frutto proibito di una storia con un pescatore, morto un paio di anni dopo in una battuta di pesca. Mia madre si sposò subito dopo il mio concepimento con il rampollo cui era predestinata, perciò nessuno si accorse di niente. Mio padre naturale fu da lei allontanato con determinazione, nonostante i suoi viaggi sino a Milano, “continente” lontano. Ma venne a sapere della mia nascita, e nessuno gli tolse dalla testa che ero sua. Mi lasciò una lettera, nell’ultimo suo viaggio, supplicò mia madre di consegnarmela, un giorno. O’scià, l’aveva intitolata. Il notaio mi spiegò che non avrei capito nulla delle parole che erano scritte su quel vecchio pezzo di carta, dialetto lampedusano stretto, ammiccò come se intendesse una lingua araba, perciò si era premurato di farla tradurre. Mi tese quindi la busta e il foglio di traduzione. Prima di congedarmi mi informò che avrei trovato anche una foto dell’uomo, nella busta, e tutte le indicazioni su come ritrovare una casupola persa tra le pietre dell’isola, che aveva lasciato a me. Era a mia disposizione per ogni volontà al riguardo, e appena avessi voluto mi avrebbe prenotato il volo per raggiungere l’isola. Il volo, pensai, non crede che sia spaventata dal volare? Ma due giorni dopo partii.

Arrivai che era già quasi buio, fui portata da una vettura malmessa in direzione di Cala Creta. La casupola, per il vero un dammuso di pietra, si affacciava sulla cala, tonda quanto il bordo di una conchiglia. Il mare lo scorgevo nella nerezza senza colori, ma ne sentivo la voce. La risacca. Mi consolò in quello strano sbarco, clandestina anch’io di una terra lontana, senza radici. Entrai dentro. Tutto sembrava rimasto come vent’anni prima. L’odore di chiuso d’improvviso si mescolò a quello di finocchietto selvatico che da fuori il vento di maestrale fece entrare, al semplice mio aprire la porta. Finocchietto e origano, mi dissi, incerta su questi odori forti che Milano aveva cancellato dal suolo e dall’immaginazione. Girovagai un po’ per le tre stanze che c’erano: una da letto, una che fungeva da ripostiglio con tutti gli attrezzi della pesca ancora sparsi tra il pavimento e il tavolo, pieno di esche ed altri strani ammennicoli, e una da abitare di giorno. In questa una sedia con un cuscino vecchio e opaco di salsedine mi invitò a sedermi, vi si sedeva lui, pensai. Rovesciai la testa all’indietro, fu un attimo. Chiusi gli occhi e presi il coraggio a due mani. Tornai dritta col collo, poi mi curvai in avanti con trepidazione, riaprii la busta, con le dita sostai appena e afferrai un cartoncino spesso. Ci volle un po’ per estrarlo e mettermelo sotto gli occhi. All’ultimo, con uno strappo d’aria, lo feci. Già, la foto. Mi apparve uno splendido giovane, riccioli di sole contornavano un viso dai tratti femminei, dolcissimi. Gli occhi di un turchese mai visto prima mi guardavano attoniti, in cerca di me. Chi sei? mi chiedevano, e anch’io per la prima volta lo chiedevo a me stessa. Non è una domanda in voga a Milano. L’essere conta poco. Ma quegli occhi non mi chiedevano altro. Resistetti poco alla loro trasparenza, uscii e presi aria. Il canto dei grilli, a me sconosciuto, mi elettrizzò. Ritornai dentro, riaprii la busta, estrassi la lettera. Non cercai di leggerla, mi fidai del notaio, presi il foglio di traduzione, buttai l’anima lì sopra, senza forze:

“Mio respiro! (vita mia, dettagliava anche una parentesi traducendo “O’scià”) Ti ho amata dal primo istante che ho saputo di te. O forse prima. Se ho indovinato il destino, come un pescatore fa, ti ho amata da quando ti ho concepita nella profondità di una grotta, degli innamorati la chiamano, dicono che si entra in due e si esce in tre tanta è la sua bellezza, dove il sole si allunga dolce e piano piano sfuoca, e il viola della roccia e l’arancio degli anemoni confondono lo sguardo. Ti ho amata come si ama la vita, assai più grande di noi, minacciosa quando la notte ingoia la mia barca, ma il più delle volte luminosa come l’urlo bianco dei gabbiani, o il celeste dell’acqua tersa di quest’isola, la più a sud d’Europa, dicono le carte del mare. Ascoltami, mio respiro, che io non sono uno nato ieri, pure se ho vent’anni ma vent’anni di mare sono tanti. Un giorno mi verrai a cercare, lo so. Non so quando. Ma lo farai. Spero di essere ancora in vita. Ma, puta caso non lo fossi, sappi che un padre è sempre un padre anche nel silenzio di secoli. Vorrei raccontarti tutta la magia della vita, il mistero che l’avvolge. Ma se non dovessi farcela, vieni su quest’isola, e ascolta. Presta l’orecchio ai tintinnii dei cespugli al vento, al guizzo dei pesci che sfondano la superficie del mare, allo schiocco dei tentacoli del polipo nel secchio sulla barca, al sudore della gente che lavora, alla stagione dell’amore dei tonni, all’aria più morbida e più lucente che altrove. Ti basterà per sapere di me, di quello che io ho amato e di chi sono, e quello che potrai amare tu, se vorrai mordere la vita e succhiarne il succo. La vita è questa. È il respiro di chi ama. Osa amare. Sempre. È il succo oscuro, il nero di seppia”.

Piansi a dirotto. Per un’ora, due, tre, non ricordo… Non avevo mai letto, nelle aule ovattate del mio pur celebre liceo classico, un poeta più grande di quel pescatore morto giovane. Mi addormentai allo stremo. La mattina dopo mi svegliai. Cala Creta riluceva di un manto color smeraldo. Tutto era così vivo da non sostare fermo sotto il mio sguardo più di qualche millesimo di secondo. Il mondo brulicava. Ma più di ogni cosa o persona, ero io a sentirmi nuova. Non ricordavo neppure il nome del notaio mio cicerone, né del mio prestigioso condominio nella via più appartata di Milano. Non avevo il benché minimo pensiero di avvertire il personale di casa, né il vago ricordo delle mie amiche che mi attendevano per l’aperitivo del venerdì, dovevo distrarmi, dicevano, tornare alla vecchia vita… Né il monito dell’iscrizione all’università, Harvard e lo ripeto, né l’abbonamento in scadenza alla Scala, né lo shopping di inizio stagione a via Monte Napoleone e dintorni vista la prossima partenza oltreoceano… Tutto era scivolato come pelle vecchia di un serpente a una muta inaspettata. Quel sottile strato di vita, che chiamavo vita, ora mi appariva nient’altro che un misero velo di sopravvivenza. Sotto di quello, il sangue mi spingeva in profondità sconosciute, dove solo i pesci arrivano, e adesso ero una di loro. Ero ciò che ero dall’immemorabile, ciò che la mia coscienza aveva ignorato ma non il mio istinto. Avevo scoperto l’amore di carne: mi sentivo figlia, e adorata da mio padre. Tutto quanto, da sempre e segretamente, avevo agognato. Il mondo, finalmente, mi saziava…

Concorso “Donne che fanno testo” – Il Messaggero

Filed Under: Racconti Tagged With: concorso, donne che fanno testo, il messagero

Comments

  1. francesco arcana says

    30 maggio 2013 at 10:43

    Io sono siciliano. Non solo di nascita ma anche di serate e giorni passate a respirare lo scirocco.
    Ho sempre avuto difficoltà a descrivere la sicilia. E non intendo i problemi culturali o la mafia ma l’essenza del respiro, l’essere in un luogo non luogo dove il sale si mischia col sole e dove la felicità profuma e la malinconia perenne nel cuore è quasi romantica.
    Adesso so come fare, E per tutti quelli che mi chiederanno “raccontaci della tua terra” avrò delle parole da prendere in prestito e il respiro sarà facilmente trasformato in “scià”, “o’scià” da una ragazza non siciliana ma che grazie all’esercizio dialettico è riuscita a capire, e non è facile, non da molti.

    Rispondi
    • Valeria says

      16 giugno 2013 at 11:31

      Un grazie speciale, ad un siciliano sensibilissimo e dal cuore d’oro, cui voglio un gran bene.

      Rispondi
  2. andrea balbi says

    1 giugno 2013 at 22:03

    Complimenti e grazie Valeria, il tuo racconto mi ha riportato gli odori, il respiro, il saluto, di quell’isola. Conservo un personale ricordo di quel posto. Delle sue albe e del loro silenzio interrotto solo dal respiro del mare.

    Rispondi
    • Valeria says

      16 giugno 2013 at 11:34

      Che belle le albe e il loro silenzio…
      Le ho vissute anch’io, al mare…
      Il mondo pare nascere per la prima volta…
      Grazie a te, Andrea, per quest’orecchio dell’anima…

      Rispondi
  3. Paola says

    3 giugno 2013 at 17:46

    Grazie Valeria d’aver condiviso questo bellissimo e avvincente racconto! Non sono mai stata in Sicilia, eppure le tue parole mi hanno commosso, mi hanno fatto desiderare di far parte di questo mondo seducente e misterioso, di essere raggiunta e trasformata dal suo respiro, come lo sei stata tu…

    Rispondi
  4. Fulvia Rajola says

    4 giugno 2013 at 19:49

    La contrapposizione tra Milano e l’isola è dura e veritiera ! Si può, però, vivere a Milano, con l’isola nel cuore !!!
    E’ solo una speranza ???

    Rispondi
    • Valeria says

      16 giugno 2013 at 11:29

      No… non è una speranza!
      Dici benissimo!
      La ‘prima’ isola è nel cuore… o è
      il cuore… come divinamente mostra Saramago ne ‘Il racconto dell’isola sconosciuta’… che mi hai ricordato…

      Rispondi
  5. alessia says

    8 giugno 2013 at 12:37

    ecco qui hai spiccato il volo….il tuo primo racconto che ho letto un anno fa, bello per le immagini, ricco di parole e profondo di significato….la frase che mi ha colpito di più è questa: Tutto era scivolato come pelle vecchia di un serpente a una muta inaspettata…..hai detto tutto…….

    Rispondi
    • Valeria says

      16 giugno 2013 at 11:26

      Grazie Ale,
      di aver colto ‘il punto di non ritorno’… mio e di tutti…
      quella muta inaspettata…

      Rispondi
  6. Annachiara says

    11 giugno 2013 at 22:13

    Come regalare grandi emozioni con poche righe …complimenti sinceri

    Rispondi
  7. Alfredo says

    30 luglio 2013 at 08:46

    Carissima Valeria, il tuo racconto è bellissimo. Sai emozionare grazie a una sapienza narrativa che avvince. La semplicità della scrittura s’intreccia con “picchi” poetici di rara efficacia. Riesci a tenere desto e curioso il lettore dal primo all’ultimo rigo (mi verrebbe da dire “verso”). La poesia infatti si palpa nel tuo racconto, s’intuisce tra le righe, si respira. Felicissimo il titolo, tra l’altro. Mi viene da pensare alle vecchie del mio paese che, rivolgendosi ai nipoti, li chiamavano appunto hjiatu meu (il calabrese al posto dell’sc siciliano usa una f aspirata). Come sappiamo, secondo l’etimo greco ma anche secondo il cristianesimo, nel fiato, nel respiro ha sede l’anima. Dire fiato mio significa dire anima mia, mia eternità, se vogliamo. Penso che il cuore del tuo racconto sia la ricerca di sé. La ricerca del proprio posto nel mondo, del senso. Infatti nella lettera che ha lasciato il padre è facile notare che l’attenzione dell’autrice si rivolge verso concetti primari quali il destino, la vita, l’amore, il mistero. La ricerca è una ricerca dell’essere, del sé. In effetti il contrasto città-isola, cultura-natura è funzionale alla fame di senso, che è la chiave del racconto. Solo l’ascolto della natura ci salverà. Solo il ritorno alle origini mediterranee (qui il riferimento al liquido amniotico materno è implicito) può rivelarci davvero chi siamo. Solo l’Amore, di cui non dobbiamo aver paura, anzi dobbiamo rischiare, osare per ottenerlo, per raggiungerlo. Ritengo tuttavia che dal contrasto civiltà-natura nasca una forza straordinaria, hegelianamente necessaria. La città quindi è lo sparring-partner ideale per la costruzione narrativa. Anzi ne è il contrasto funzionale.

    (Ti parla uno che ha fatto il percorso inverso rispetto alla protagonista del racconto ma che vive quotidianamente sulla propria pelle il problema).

    Complimenti per la capacità di rendere nitide le peculiarità dei paesaggi di mare e la psicologia d’un certo Sud che si rivela dalla lettera del padre. Un Sud dignitoso e orgoglioso, fatalista e poetico (un padre è sempre un padre, anche nel silenzio dei secoli).

    Rispondi
    • Valeria says

      31 luglio 2013 at 09:44

      Un commento talmente ricco, di senso, di studio delle parole… di dettagli cruciali, di sentimento… che mi hai lasciata stupefatta. Sei un poeta, lo so, e questo dice tutto. Grazie Alfredo

      Rispondi

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