A metà del cammino verso una coscienza filosofica, quale ci siamo proposti, sta un salto di qualità da affrontare: il dipartirsi dalla dimestichezza che si intrattiene, ormai, con le proprie basi cognitive e il saggio di nuove posizioni.
Un primo grado di rotazione si raggiunge col focalizzare lo stato di immaterialità nel quale siamo collocati come soggetti d’apprensione. La scuola della metafisica, in primis, utilizzata poi con sapiente maestria dalla scienza, ci hanno trasformati in punti d’osservazione in qualche modo disincarnati. In quanto conoscenti noi viviamo l’illusione di poter uscire dal mondo e osservarlo in piena verità e indipendenza.
L’avanzamento tecnologico ha rinforzato tale antica fede corredandoci di una vita elettronica raffinatamente eterea, inafferrabile, localizzata in un invisibile punto dello theorein[1]. Una forma intellettiva, dunque, estesa sull’intero pianeta eppure inesistente in ciascuna parte di esso, insomma una spiritualità virtuale, alimentantesi da sé, in progresso.
Ridiscutere tale “anima” vuol dire “ficcar lo viso” dentro il movimento tecnologico, leggere, nell’e-mail, se davvero essa può affermarsi disincarnata, o se si tratta dell’antico sogno di onnipotenza mi del tutto realizzatosi.
Ci serviamo dell’acuta scaltrezza di un fenomenologo per poter avvicinare un paradosso contemporaneo, ovvero la “carnalità” della nostra produzione intellettuale.
Seguiamo le sue parole:
“Il visibile attorno a me sembra riposare in se stesso. È come se la nostra visione si formasse nel suo cuore, o come se fra noi e il visibile ci fosse una relazione altrettanto stretta che quella fra il mare e la spiaggia. E tuttavia non è possibile che noi ci fondiamo con esso, né che esso passi in noi, altrimenti la visione svanirebbe al momento di realizzarsi, per scomparsa del vedente o del visibile. Ciò che dunque c’è non sono delle cose identiche a se stesse, che in seguito si offrirebbero al vedente, né un vedente, dapprima vuoto, che in seguito si aprirebbe ad esse, ma qualcosa a cui noi potremmo essere vicini solo palpandolo con lo sguardo, delle cose che non potremmo sognare di vedere completamente nude perché il nostro sguardo stesso le avvolge, le riveste, della sua carne. Qual è il motivo per cui, facendo ciò, esso le lascia al loro posto, per cui la visione che ne abbiamo ci sembra provenire da esse, e per cui essere viste per esse non è che una degradazione del loro essere eminente? Qual è questo talismano del colore, questa virtù così singolare del visibile, che fa sì che, tenuto in fondo allo sguardo, il visibile sia però molto di più di un correlato della mia visione e che esso sia ad impormela come una conseguenza della sua esistenza sovrana? Per quale ragione il mio sguardo non li nasconde, avvolgendoli, e li svela, velandoli?”[2]
Ciò che noi leggiamo, in massima chiarezza grazie a queste righe, è la tecnica del nostro intenzionare fenomenologicamente il mondo, occultata dalla metafisica. Prima dello theorèin metafisico, vi è un’interconnessione vedente-visto, tale che non vi è superamento dell’uno sull’altro ma una sorta di intreccio, di nascita in comune, di coesistenza, di “chiasma”. Seguiamo questo smascheramento:
“Il corpo ci unisce direttamente alle cose in virtù della propria ontogenesi, saldando l’uno sull’altro i due abbozzi di cui è fatto, le sue due labbra: la massa sensibile che esso è e la massa sensibile da cui nasce per segregazione, e alla quale come vedente rimane aperto. È il corpo, e il corpo soltanto, poiché è un essere a due dimensioni, che può condurci alle cose stesse, che non sono a loro volta degli essere piatti, ma degli esseri in profondità, inaccessibili ad un soggetto di sorvolo, aperto solo a quello, se è possibile, che coesiste con esse nel medesimo mondo. Quando parliamo della carne del visibile non intendiamo fare dell’antropologia, descrivere un mondo ricoperto di tutte le nostre percezioni fatta eccezione di ciò che può essere sotto la maschera umana, vogliamo dire che l’essere carnale, come essere della profondità, a più foglie e più facce, essere di latenza e di presentazione di una certa assenza, è un prototipo dell’Essere, di cui il nostro corpo, il senziente sensibile, è una variante molto notevole, ma il cui paradosso costitutivo è già in ogni visibile”.[3]
La tecnica dello smascheramento ci consente un approdo: oltre la noesis[4] sovrafisica c’è uno stile marcatamente fenomenologico del nostro incedere coscienziale; oltre la spaccatura cartesiana, cosa sensibile e cosa intellettuale si intrecciano nella profondità “a più fogli” dell’essere.
Quale conquista, questa, per noi abitanti del pianeta on line?
Diciamo pure una rotazione di secondo livello, “ipertestuale”. Forti di un bagaglio scientifico ricchissimo, la profondità “a più fogli” della nostra cultura deve consentirci di usarlo fuori della mistificazione.
Lo slogan da pubblicizzare potrebbe essere “l’elettronica: una variante del corpo!”. Con ciò ribadire, specie per i fruitori più giovani, un primato ontologico ineliminabile della corporeità, la quale sola permette ogni suo ritagliamento e sofisticazione.
Articolo pubblicato sulla rivista Beltel, edizione speciale luglio 1997, Milano.
[1] Theorèin, dal greco antico (theòs = Dio + Orào = guardare), visione pura e distaccata delle cose, tipica della divinità che non è coinvolta dai fatti del mondo e del filosofo che, grazie alla logica, può giudicare gli eventi senza paura di inquinarli con le sue emozioni soggettive.
[2] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, testo stabilito da C. Lefort, tr. it. A. Bonomi, Bompiani, Milano, 1969, pagg. 155-156.
[3] Ibidem, pagg. 161-162.
[4] Nòesis, dal greco antico, “percezione, intendimento, intelligenza, intelletto, mente”.
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