Valeria De Luca

Pensieri, parole, emozioni

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Ci facciamo compagnia

8 Marzo 2013 by Valeria 2 commenti

L’appartamento non poteva dirsi bello. Ma cosa è bello o non lo è, cos’è bene e cos’è male? avrebbe obiettato Sonia. La grinta anarchica si legava a una morbidezza arrendevole del corpo. Non faceva strano, le sue due qualità erano una sola. Cioè lo scorrere della vita per linee curve e senza punti d’arresto. Una corrente cercava d’affermarsi sull’altra, creando vortici, ma nessuna vinceva per sempre.
E mentre si preparava s’era accorta che si stava facendo tardi. Aveva guardato l’orologio e appena dopo aveva preso ad accelerare. Ma con che cura si era vestita, con che vezzi! neppure un’adolescente alle prime uscite avrebbe tirato fuori quel trionfo di femminilità: pizzi e ricami, volant nastrini sete e merletti, pettinini, rossetto e colori indosso e sul viso, sopra gli occhi sulle gote sulle unghia sulle ciocche. Era abituata ad adornare il corpo, a sentirlo, a viverlo in tutte le fogge, in tutte le potenzialità. Ci sono donne che non si accorgono neppure di averlo, un corpo. Se lo trascinano con indolenza, a volte vergogna o sorpresa addirittura, un’appendice stanca del pensiero, uno sconosciuto che dà impaccio. Lei liquidava queste donne con superbia. Diceva di aver ottenuto e ottenere tutti gli uomini che voleva. Mica come sua madre, povera! e lo diceva con crudeltà, quasi ad aggiungere – te la sei voluta.

La madre aspettò un marito che mai tornò. Se n’era andato quando Sonia aveva appena qualche anno, con la scusa di un trasferimento per ragioni di servizio, nell’arma. Tornava, sì, all’inizio, le domeniche dei primi mesi si attendeva il ritorno del guerriero. Una gran festa, le tovaglie tirate fuori e stirate a perfezione, i cibi più succulenti, la madre che si rivestiva come le madonne dei paesi. Poi, via via che il tempo passava, i ritorni erano diventati più radi. Complicazioni, era la scusa. Complicazioni sul lavoro. La madre aveva assunto, via via, un tono mesto, i colori seguivano gli umori sonnolenti e dubbiosi di quei mesi, la vita pareva si fosse arrestata dentro un pomeriggio interminabile. Dai a dirle – Ma vai! vai tu a trovarlo! vedi che succede! – Lei niente. Diceva di fidarsi, di non aver bisogno di prove. Poi, la sera Sonia l’osservava trattenersi a lungo all’ombra di un libro, la vedeva fantasticare sulla vita degli altri, su storie immaginarie, ricomponeva pezzi della sua, con quel fare fantasioso, misterioso anche, che non si spiegava. Non si spiegava perché questa creatura strana non avesse l’urgenza della verità, non sapesse neppure cosa fosse un picco di rabbia, uno solo.
C’era andata Sonia al confronto con quell’uomo. Un pomeriggio dei suoi quattordici anni aveva preso un treno in corsa, come la vera moglie. Senza pensarci due volte, senza preavvisi. S’era presentata al comando che faceva più paura lei di un generale. Era notte. Aveva chiesto del padre e le risposte erano state vaghe, poi qualcuno si era lasciato sfuggire che il padre non stava più lì, che s’era messo a condurre un bar insieme a una certa donna. Non ci volle tanto a sapere dove. Le luci della notte consentivano appena di vedere oltre il vetro del locale e c’era stata un po’, lì fuori, ad osservare il mezzo busto del padre oltre il bancone, quasi non lo riconosceva. S’era fatto vecchio. Improvvisamente. Un vecchio stanco, che passava lentamente la spugna e lentamente sgomberava bicchieri. Poi era entrata, brandendo la porta a vetri, tutti s’erano girati e avevano visto una bellissima ragazzina, la pelle di miele, ancora, ma l’aria di bestiola vissuta. Lei li aveva guardati appena. Era andata dritta al bancone. Aveva afferrato uno dei bicchieri, sbattendolo col fondo sul legno appena lucidato, e aveva esclamato: – Così, sarebbero queste le complicazioni? – L’aveva fatto con la lingua secca, affilata, una corda di violino tesa. Poi s’era voltata di scatto, i capelli avevano dato una scudisciata luminosa all’aria, un soffio gelido, ed era scomparsa. Quando il padre si riebbe lei era sul treno del ritorno.
Gli uomini che Sonia incontrò, da allora in avanti, furono uomini “da bancone”. Anche se erano giovani, anche se non avevano bisogno di spugne per la coscienza, lei li vedeva così. E al contrario della madre, stava loro addosso con violenza e cavandoci tutta la convenienza che poteva. E sul più bello li mollava e punto e a capo. Erano passati quasi vent’anni da quella notte, stava nella sua casa, al di là del bene e del male.

Quel pomeriggio s’era fatto tardi, s’era chiusa la porta dietro e a passi svelti era scesa per strada, un caos di vetture accavallate lungo corso Italia che facevano uno strano contrasto con le mura di piazza Fiume, solide, indifferenti allo scorrere del tempo, sovrane ancora sulla moltitudine. Sonia camminava svelta sul margine interno del marciapiede per sfuggire ai gas di scarico, qualche isolato e poi s’arrestò. E salì per le scale di una chiesa.
Quando l’aiutante del sacrestano la vide entrare stava sistemando i libri sul pulpito, s’era trovato da poco a dare una mano lì. Jacopo. Aveva vissuto tra quadri e sete, all’ombra dei ricevimenti, il padre in viaggio da un paese all’altro, la madre dietro a quell’uomo, lui tra governanti assetate di riscatto. Da allora un gran caos. E da allora, probabilmente, non era cominciata la sua caccia nel mondo. Per la caccia ci si deve vestire, armare, e affrontare il bosco, e giunti lì inoltrarsi nell’oscurità, resistere spaventati ai versi di animali sconosciuti, patire il freddo e la fame. Non è che Jacopo non ne avesse la volontà, non era pigro, ma non sapeva neppure da dove cominciare, soprattutto perché non riconosceva la paura. Lui, che aveva assicurati presente e futuro, ma che poteva temere?
Qualche settimana addietro aveva incrociato Sonia in quella chiesa. Non riuscì a staccarle gli occhi da dosso per tutto il tempo. Fece in modo di tornare la successiva volta puntuale, spinto dal sospetto che potesse trovarla ogni giorno, a quell’ora, in quel banco. E tanto fu.
Ma che viene a fare una come lei? La sua presenza aveva preso a turbarlo.
Sonia era appena entrata, affannata, da corso Italia. Aveva notato Jacopo, erano giorni e giorni, oramai, che s’era accorta di lui, gli occhi addosso era abituata ad averli, e quel pomeriggio aveva ricambiato lo sguardo.
Era successo così. La luce era fioca. Un ondeggiare lento di riflessi sommersi dalla foschia dell’incenso e della cera. Pareva che la realtà fosse una pellicola scottata. Per i colori. La densità. Però, al contrario d’una pellicola, era più viva del vivente. Un’intensità lenta e smisurata. Gli occhi di Sonia era due mezze lune che avevano sentito l’attenzione di Jacopo e s’erano accese di colpo. Come quando si riceve un mazzo di fiori, stringendoli addosso non si sa quale guardare prima, o annusare prima, una sovrabbondanza che non si contiene. Ecco, quella sovrabbondanza aveva rinviato al mittente, ancor più carica. Gli occhi di Sonia erano diventati mani che accarezzavano, che scivolano sul corpo di Jacopo come su una storia.
Jacopo non aveva retto lo sguardo, aveva dovuto girarsi. Ma a quel punto tutto aveva preso a ruotargli attorno. Vorticosamente. Le statue sparse un po’ qui un po’ lì nella navata, sotto le volte a botte e oscure, avevano formato una specie di processione davanti a lui. Muscoli di pietra che si muovevano, veli che ondeggiavano come i teli al mare, e volti, tanti volti, occhi umidi che chiedevano.
Le statue gli chiedevano cose incredibili:
– Jacopo! …la differenza tra noi e te la sai? –
– Jacopo… te ne stai immobile… che non te ne fossi accorto? che tutto è movimento? –
– Lo sai che fa la gente? Viene ad inginocchiarsi sotto a noi. Spesso la gente se ne sta nelle nicchie, proprio come fosse di pietra. Pietra. C’è diventata, va bene, e neanche se n’è accorta. All’inizio non si rende conto che i passi si fanno sempre più corti, pensa che sia la stanchezza. Di tante giornate. Del disordine delle emozioni. Della vita, che pare non basti mai il respiro per viverla. E invece, quello che accorcia i passi è la paura –
Jacopo trasalì.
– La paura? –
– Già, la paura. Perché, non la conosci? –
– …Io? No –
– Povero! Se non la conosci vuol dire che ti ha proprio in pugno! –
Jacopo s’era fatto forza: – ma che stai raccontando? –
– Ti sto raccontando della paura che hai di quella ragazza –
– Che ragazza… quale ragazza? –
– Quella lì… seduta al banco a sinistra… –
– Ebbè? –
– Ebbè? Sono giorni che l’osservi. Ma ti tieni a distanza –
– Perché dovrei avvicinarla? perché? –
– E perché no? visto il potere che ha su di te? –
– Potere su di me? –
– Sì, così… –
– Potere? –
– Il potere. Quello che uomini e donne si spartiscono! –
– Per far cosa? –
– Per vincere –
– Io non ho bisogno di vincere –
– No, tu non hai proprio iniziato la partita –

– Scusi? –
Una voce leggera aveva rotto l’incantesimo, Jacopo s’era voltato.
– Scusi? – aveva dovuto ribadire. La voce gli era rimbombata nel petto, talmente forte che aveva dovuto stendervi il palmo sopra per impedire che il cuore gli saltasse fuori.
– Sì, mi dica –
– Volevo… sapere l’orario della funzione –
Sonia s’era avvicinata e inventata qualcosa sul momento. Jacopo era sprofondato nella paura. E aveva sentito la forza di Sonia, quella capacità di sopravvivenza, il luccichìo della vita e insieme l’abbraccio perduto. L’aveva guardato come mai era stato guardato. Si era mossa davanti a lui mansueta, e non per finta. S’era sentita al sicuro con lui, come se dentro al bosco avesse finalmente incontrato uno che non aveva l’istinto di sbranare, che se ne stava a brucare l’erba. Erano rimasti a parlare non si sa quanto, prima un po’ a stento, poi a fiotti, con un corso irregolare che tradiva slanci e ritirate.
Finché uno dei pomeriggi seguenti, quando la conoscenza era andata avanti e s’erano ritrovati vuoti dall’interrogarsi, spossati dall’attesa di altro piacere, Jacopo se n’era uscito con una domanda strana:
– Ma tu che vieni a fare, ogni giorno, da queste parti? –
Sonia era rimasta in silenzio per un po’. Si vedeva che dietro a quelle parole le erano passate negli occhi mille emozioni, un sentimento che ha mille rivoli, velocità. Era stata ancora un attimo a prendere fiato. Aveva guardato Jacopo. Poi aveva portato gli occhi altrove, con un fare lento, ad indicare a Jacopo che la doveva seguire nella direzione. Accertatasi che l’avesse capita, s’era spinta ancora in avanti con lo sguardo, molto in avanti, fin dentro l’abside davanti al loro banco. Pareva un antro oscuro, a quell’ora, l’abside. Un altro bosco. Con un assurdo sacrificio. Un uomo, dicevano, s’era andato a mettere nelle mani dei carnefici. La cosa l’aveva toccata: un pezzo d’uomo, giovane, e coi muscoli tesi, era solo. Solo in croce!
Dopo aver sostato un istante su quel sacrificio, s’era girata verso Jacopo con la dolcezza di un cerbiatto, e con le labbra molli, tenere, s’era lasciata sfuggire:
– Lui è solo. Io pure. Ci facciamo compagnia –

Archiviato in:Racconti Contrassegnato con: compagnia

Commenti

  1. Sonja dice

    28 Aprile 2015 alle 11:09

    Letto a perdifiato….intenso e ti prende fino in fondo, solo quando arrivi non vorresti aver raggiunto la fine……un invito Valeria a continuare questo racconto…..la storia, di Sonia….respira, ecco, fallo respirare ancora un po’…..

    Rispondi
    • Valeria dice

      28 Aprile 2015 alle 11:11

      Accolgo l’invito, d’accordo, grazie!

      Rispondi

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