Mentre si lava il caffè è sul gas, come faceva il padre. Lei era una delle donne, tante, che si premuravano di portarlo bussando piano alla sua porta. L’aroma incensava i corridoi. È tornata nella casa paterna da qualche anno, ma non c’è più nessuno. Il rito del caffè lo consuma sola. Si accorge della moka che comincia a tossire, il fornello appoggia sulla parete del bagno dov’è addossata la vasca. Oppure sarà l’istinto materno verso quel lamento, metallico, che attiva la sua cura. Si affretta a uscire dalla vasca, si infila le ciabatte coi piedi ancora gocciolanti, l’accappatoio, arriva giusto in tempo a girare la manopola del gas. Versa il caffè nella tazzina, il fumo che si spande è un’eccezione nell’aria ferma della cucina. Nel buio spinge a memoria il pulsante della caldaia, giù e una fiammata si anima all’improvviso.
L’ufficio del sindacato è a poche strade. Gli impiegati, che l’hanno riconosciuta dall’urto della porta, si sono lanciati un’occhiata: oggi a chi tocca stare a sentire la pazza? Non si sa quante volte le hanno spiegato che su quella regola condominiale non c’è da discutere, spetta a lei pagare le spese, ma lei insiste che non è così. Eppure stamattina un signore seduto in sala d’attesa ha ascoltato la vicenda e la pensa al suo stesso modo. Non che volesse impicciarsi, ma non ha potuto fare a meno di ascoltare il fatto perché l’atrio del sindacato è ancora vuoto, le voci l’hanno riempito. Stava con una rivista tra le mani, e ha tentato di rimanere concentrato nella lettura ma l’accento della donna gli ha ricordato un luogo perso nella sua memoria, dove la sua famiglia soggiornava nelle vacanze estive. Era l’atto di riverenza di suo padre verso sua madre, lui e il fratello scalpitavano, come si poteva, da Roma, arrivare sino a Trapani e oltre? Viaggiavano su di un treno che via via si accorciava e si appesantiva di persone dall’aria euforica che tornavano a casa, mentre lui e il fratello erano in esodo. Gli è rimasta appena una pallida immagine di lì, salvo un ricordo.
***
Un giorno di agosto si era infilato in una chiesa per trovare tregua dal caldo, di primo pomeriggio. Dentro non c’era anima viva, eccetto un vecchio che s’aggirava in sacrestia. S’era messo avanti, sotto la statua di un santo, a giocherellare con le candele che si accendono per i voti. Ne aveva infuocate un mazzetto intero senza mettere una moneta d’offerta quando, dietro, aveva sentito strusciare le scarpe del sacrestano. La miseria! S’era affrettato a mollare l’ultima candela per darsela a gambe, ma il vecchio l’aveva preso di contropiede:
– E come se ne hai di sogni, ragazzino! –
Il tono del vecchio era scherzoso. Lui aveva alzato lo sguardo. Gli occhi del vecchio erano occhi mai visti prima, celesti e grandi quanto il mare, e sembravano scintillare delle leggende lette sui banchi di scuola, risuonare delle grida degli eroi. S’’ingarbugliò a rispondere, timidamente annuì.
– Considerati fortunato, ragazzino… – gli aveva detto il vecchio – io ho vissuto senza seguire i miei sogni. Colpa di un incantesimo… –
Lui non chiese nulla dell’incantesimo, tornò a casa con le mani che scottavano di cera e l’animo sottosopra.
***
La donna ha l’accento di quel vecchio. L’aveva già incrociata qualche altra volta per via Giulia, non è più attento ma la bellezza delle donne al tramonto è qualcosa che supera anche la sua disattenzione. Perciò è rimasto ad ascoltare quello che i giovinetti del sindacato vanno raccontando, ma che ne sanno del diritto.
– Posso aiutarla, signora?-
– Prego?- la donna non si era accorta della sua presenza. Non si sarebbe stupita dell’interessamento se fosse stata ancora giovane, allora ne aveva avuti di pretendenti.
– Sono un avvocato, se avesse bisogno…-
– Un avvocato! – e comincia a snocciolare i particolari. Le parole non le sembrano sufficienti così, mentre spiega, lo conduce sino al portone di casa.
Il palazzo, imponente, sorge a metà di via Giulia, coi muri bagnati della corrente limacciosa del Tevere. Apparteneva, tutto intero, all’orgoglio della sua famiglia, ma negli anni era stato fatto a pezzi e alla fine dato in pasto ai “neogiuliesi”, salvo l’attico dai glicini odorosi. Adesso volevano strapparle pure quell’ultimo lembo. Il pubblico ufficiale aveva fatto sapere che alcune serie questioni di sicurezza imponevano di sventrare l’attico in cui abitava. Tutti si aspettavano una guerra.
L’avvocato alza lo sguardo: il palazzo ha l’aria di essere stato progettato in grande. Scorre i dettagli dei bassorilievi attorno alle finestre, intravede uno spicchio di scale che si attorcigliano a spirale. Quella vita in grande si è ritirata oramai, gli chiarisce lei: eccetto i primi piani, dove si sono installati enti statali con le sedi di rappresentanza, c’è un formicaio di proprietà prive di ogni manutenzione.
– Se volesse dare un’occhiata dentro…-
– Oggi non posso, domani mattina – rassicurandola.
L’avvocato si rincammina verso casa. La testa gli scoppia. Non è il traffico di Roma, ha un passo distratto, sorride non chi incrocia, pare piuttosto intrattenersi con fantasmi. Le ipotesi di legge per risolvere la faccenda le va sgranando come un rosario. Nel contempo sogna di essere in riva al mare di Trapani, dove fa caldo e giocherella con una collana della madre. Il ragionamento si mescola a un piacere tattile. Quando d’improvviso il portiere di casa sua lo saluta, allora d’urto rientra in sé. Sale d’un fiato sino alla sua porta, il tempo di girare le chiavi, si precipita in biblioteca: un patrimonio che si trasmette da generazioni e che l’avvocato continua ad aggiornare di riviste e sentenze dell’ultima ora, con l’ansia degli uomini di legge di correre dietro alla vita, sempre un passo avanti a loro! Abitualmente sulle faccende si consulta col figlio, ma oggi no, non l’ha avvisato. S’è chiuso a chiave nell’antro pieno di scaffali – nonostante nessuno possa disturbarlo, ormai è rimasto solo – e sulle pagine dei libri, tra le palpitazioni, risente la voce della donna e quella del sacrestano! Ma allo scoccare della mezzanotte l’avvocato ha individuato il modo di risolvere la questione. Si solleva dalla poltrona, lascia alle spalle l’odore dello studio, spalanca la vetrata e respira il buio. Se avesse ancora una bicicletta vagherebbe nella notte a tutta velocità, per mangiare aria e scoppiare.
***
È mattina. Suona al campanello del palazzo di via Giulia.
– Sono l’avvocato…- mentre si accarezza la barba.
Quelli del sindacato, entrati in casa mesi fa, erano rimasti sconcertati. Qualcosa corrode i muri della casa, il legno dei mobili, i tendaggi, bruciati da un invecchiamento precoce. Quelli del sindacato non conoscono la Sicilia, non sanno come una certa aria si trasporta nei luoghi che si vanno ad abitare, al punto che una migrazione diventa uno spostamento di crosta terrestre. L’avvocato sa di calpestare terra vulcanica. Si ricorda delle pietre di Trapani e di Pantelleria, potrebbe giurare di trovarsi non lungo il Tevere, ma in un dammuso piantato in mezzo al Mediterraneo.
La donna lo fa accomodare in salotto. L’avvocato illustra la soluzione. Ma il discorso, pian piano, prende un’altra piega.
Sarà che l’avvocato ha qualcosa di familiare, pensa lei… l’ha subito notato. Forse la maniera di intonare le frasi: una melodia a cantilena, come se prendesse la rincorsa per arrivare alle cose. O forse la leggerezza con cui affronta argomenti pesanti al pari di quisquilie. L’avvocato ha la stessa nitidezza, o pulizia morale, delle sue idee. Persino il gilet verde-gelso sopra la camicia a quadri, l’ha fissato per un po’ ed è tale e quale a come si vestiva il suo Mario nelle giornate fredde sotto Natale.
– La verità, avvocato, è che attraverso quella crepa nel muro io mi sento osservata – fa lei all’improvviso guardando la parete in causa.
– Osservata? e da chi?-
– …dall’uomo che avrei dovuto sposare! –
– …l’uomo che…?-
– Avvocato, lei la conosce la Sicilia? –
***
– …Deve sapere che in un paesino della costa bassa di occidente, quella che guarda l’Africa, ha presente… ecco, sono nata lì, ultima figlia di dieci. Mio padre era un avvocato rispettato. Mi sono trasferita a Roma per l’università: l’avvocato, così dicevano al paese, voleva i figli nella capitale. Più in là ci si trasferì tutti. L’estate tornavo poco in Sicilia, la mia famiglia poteva permettersi altri affacci sul mare e mio padre aveva voluto costruire la casa più sontuosa in Sardegna, diceva che lì il mare si ripuliva dai tormenti che il vento d’Africa trascinava in Sicilia, la gente dormiva tranquilla. Ma un’estate, dei ventidue anni, ci tornai. I contatti li avevo tutti persi tranne con un cugino, coetaneo, era stato il mio compagno di giochi. Lui mi telefonava, mi aspettava, quella volta non lo delusi e tornai. Una mattina si presentò con un amico, bello come il sole. Ma “troppo siciliano”, pensava mio padre. E non pensava ai siciliani colti che frequentava, gli eredi degli antichi, quelli avrebbero riportato in alto il pensiero, no. Si riferiva ai figli della terra, tutt’altro destino: “Che vuoi, debbono campare tutti, ma le due razze – declamava agitando indice e medio della mano destra – le due razze non si incontrano mai!” I primi fatti per restare avvinghiati alla terra, immobili come i campi, schiavi del vento d’Africa, diceva, mentre agli altri era dato di scegliere perché erano nati liberi, e sarebbero emigrati nel continente, perché è lì che si comanda.
Una teoria che gli si leggeva stampata in viso. E lo osservavo continuamente, avvocato. Avevo osservato la famiglia intera, è il privilegio e la condanna degli ultimi nati, di essere poco guardati e di guardare molto. Ero l’unica ad essersi accorta, per esempio, che uno dei miei fratelli beveva alcool a fiumi e la notte, quando rientrava, picchiava a sangue il cane Jack senza motivo. Da sotto le lenzuola iniziavo a sentire i guaiti di Jack, ma non osavo alzarmi dal letto perché era lui, mio padre, che sapeva tutto e non potevo sapere qualcosa in più di quello che voleva sapere. “Jack prende le botte dai contadini perché di notte va a calpestare il raccolto”, questa era la verità. Il fatto è che tutti, in famiglia, ci piegammo a credere alle verità secondo mio padre, è così che funziona nelle famiglie, comprese quelle democratiche. Le idee penetrano sotto le porte come la polvere. Si accumulano giorno dopo giorno, e succede di svegliarsi quando la polvere è oramai cemento -.
– E quindi? poi? che ne è stato del ragazzo e di lei? –
– Vede, avvocato, per diversi anni continuai ad avere il fantasma di Mario nella testa. Capitava che dei giorni, a Roma, arrivava una sabbia sottile, dicevano venisse dall’Africa, allora ripensavo al vento di laggiù e mi compariva davanti la sua sagoma, così come la ricordo quando capì che era finito tutto: con la schiena piegata se ne andò. E per molto tempo, la notte, insieme ai guaiti di Jack sognavo un lamento sordo, più dolente ancora. Poi seppi che s’era sposato, ne persi ogni traccia. Sino a che morì mio padre e qualcosa cambiò.-.
– Come?-
– Sa che succede, a volte? Senza saperlo ci allontaniamo dal mondo reale, non si sa dove. I miei parenti mormoravano che dalla rottura del fidanzamento in avanti ero cambiata. “Ma che ha fatto Costanza? – si chiedevano nelle riunioni ufficiali – prima così irrequieta e guarda ora!” – e così dicendo alzavano le spalle, come le si alza di fronte a una malattia sconosciuta, con una specie di rispetto verso l’imponderabile e l’irreversibile. Mia madre si affrettava a rispondere che era l’età, che ero della razza di mio padre io e stavo solo covando la riscossa. Ma avevano visto giusto. Avvertii dentro una fuga, per lunghissimo tempo, mi sembrava di non poterci fare alcunché. Ascoltavo le mie parole e non le riconoscevo. Finché mio padre fu vivo. Ma dalla veglia funebre mi comportai in maniera strana. Furono convocati parenti, amici stretti. Ognuno quel giorno disseminò ragioni di eccellenza sul suo conto. Tranne io. Cominciai di botto a riparlare di Mario e di quanto mio padre si fosse sbagliato al riguardo. Le mie sorelle mi guardavano semplicemente allibite. Avevano matrimoni tranquilli e questi sprazzi di pazzia arrivavano contro le loro morbide vite come frustate. Ma non smettevo, allora mi portarono fuori, all’aria, per farmi ragionare.
L’avvocato accarezza con lo sguardo la donna. Lui si è sposato ragazzo e ha messo al mondo subito un figlio, poi la moglie è morta e lui ha affrontato benone la solitudine. In tutto l’avvicendarsi di eventi, negli anni di ritiro in biblioteca, aveva sentito crescere pian piano una speranza. Non sapeva in che. Capitava che certe mattine si svegliava, alzava le serrande della grande stanza da letto e la luce del sole disegnava sulla tenda chiara delle ombre tremule. Erano i pini che fuori si muovevano al vento. Allora si lanciava verso la tenda, la tirava con forza ai margini e faceva come per acchiappare qualcosa, dietro. Ma a quel punto l’ombra era andata via. Era così, qualcosa scappava.
– Signora, mi dica meglio… che cambiò dalla morte di suo padre? -.
– Aspetti. Mi sono fatta questa convinzione, un’opinione personale avvocato, per carità! L’anima, capisce che intendo? l’anima la immagino come una bolla d’aria. Sarà un’ossessione di noi gente del Sud, di ricondurre tutto agli elementi naturali. Comunque. La bolla funzionerebbe così: a seconda dell’aria che riesce ad incamerare si espande o si riduce. E l’aria… è la materia dei sogni.…Ma non siamo noi a possedere i sogni, sono loro che ci posseggono! Seguirli è come non avere “potere” sulla vita, almeno quel tipo di potere cui tutti ambiscono: decidere a tavolino chi essere, anziché scoprirlo strada facendo. E chi è disposto a tanto? Così abbandoniamo i nostri sogni. L’anima via via si sgonfia, perde di pressione. La nostra vita s’intristisce… A meno che, ecco, un bel momento si faccia retromarcia…
– Dunque, vorrebbe dire… –
***
Il giorno dell’udienza sul palazzo di via Giulia, l’avvocato stava per uscire dalla biblioteca di casa sua. Quando, un attimo, si arrestò sotto la grande tela appesa sulla parete di fronte al suo tavolo. Una scena di caccia. Gli avevano spiegato che si trattava di una leggenda degli inverni lapponi. Tra chiome nevose di abeti erano pennellate delle scie di luce, archi di polvere colorata, sospesi nella notte. Il fenomeno era noto, “fuoco delle volpi”. Si narra siano le volpi a provocare quelle scie scodinzolando tra i tronchi, quindi sollevando cristalli di neve. Nel fondale del quadro stavano i cacciatori, i fucili neri spianati. In primo piano una volpe, fulva, bellissima, che scodinzolava. …Ripensò di soprassalto alla luminosa signora di via Giulia. Diventata nei mesi scorsi sua cliente, poi molto… molto di più. Rigettò gli occhi increduli sulla tela. La volpe continuava a scodinzolare. Avvampò.
Si diresse in Tribunale. Arrivato, lo informarono che quella mattina la signora di via Giulia era morta.
***
Sul testamento trovò scritto che l’attico dai glicini odorosi veniva lasciato in legato a lui. Abbandonò casa sua e si rifugiò “in Sicilia” – diceva.
E sovente si fermava sul terrazzo a godersi la notte che scendeva sul Tevere. Una discesa sensuale, la discesa di una Dea sulla terra. E lui l’aspettava, ansioso come un amante. Felice come un amante.
Anni dopo la causa in Tribunale fu vinta.
Certi eventi non lasciano indenni, quanto diversi se ne esca è soggettivo. Bellissimo, come rendi palpabile la vetustà della casa in via Giulia, da cui trapela ancora una bellezza aristocratica. Scrigno di tante anime, che si sono avvicendate negli anni.
Già… la casa è davvero la testimone oculare delle nostre vite… Ci contiene, contiene tutte le nostre emozioni, odora di noi… e ci guarda, senza giudizio, ma con memoria immortale.