Elisa si era avviata lungo il naviglio che era ancora presto. Poche case rincorrevano il corso d’acqua voltando le spalle a Porta Genova e a tutto ciò che, presso quella Porta, era stato piantato con radici. Tutto era cominciato da due o tre lettere ricevute all’età in cui non si aspetta altro, ed ora stava per sposarsi. Ogni santa mattina che si allacciava il corsetto, bottoncino dopo bottoncino, sentiva di chiuderci dentro di più. A volte ne lasciava aperto un trattino, una fessura di lino. Per sciatteria? Può bastare per salvarsi. Poi capitava che qualcuno glielo facesse notare e lei, arrossendo del desiderio nascosto dietro quella fessura, sfarfallava con le dita. – Tutto a posto? –
Il naviglio si colorava del tramonto. Alcune luci si accendevano nella profondità delle case e una nostalgia la innervosiva. Aveva accelerato il passo, poi fu un lampo: quel portone.
– Sì, signor D’Adda, sono la signora D’Orazio… (quasi signora)-
Il giovane stava al tavolo, le carte erano tutte preparate. Le aveva risfogliate, riadagiate l’una sull’altra, e mentre aspettava, per ingannare il tempo s’era preso le labbra dubbiose con l’indice e il pollice e le stringeva. Più pensava più stringeva. Quel caos di proprietà, locazioni, i notai, gli inquilini, era solo uno dei pesi che la famiglia gli aveva lasciato.
– Con permesso? –
La porta s’era schiusa su di un ingresso dominato da una grande tela, bordata da una cornice cupa ed arsa, che si mischiava con il dipinto. Non per i toni, c’erano pennellate vivaci, ma per l’aria di vissuto, di prosciugato nella materia. Era un paesaggio di mare. Un grappolo di case scendeva giù per una ripida china, case affastellate, l’una accanto all’altra, una sopra l’altra, una folla di gente che attendeva qualcosa dal mare.
– Le piace, signorina? – fece D’Adda guardandola che s’attardava nell’ingresso senza curarsi di lui. – Sa, un pezzo di famiglia. Uno scorcio di Genova. La gente di mare non dimentica il mare, neppure dopo anni. E questo fiumiciattolo qua fuori, che chiamano il Naviglio grande, lo capisce? Non è la stessa cosa… –
Certe voci, certe rincorse dietro al sole, l’odore della fauna di mare, la nausea per i banconi dei venditori, tutto quello che, al di là dell’agiatezza, rimandava alla scoperta, all’avventura, al pericolo, lo custodiva segretamente nell’anima. Parole e fatti che penetravano tra le carte dei notai e gli atti di compravendita, e lo lasciavano attonito.
Il primo incontro tra lui ed Elisa risaliva a qualche mese addietro. Elisa era arrivata lì con la freschezza di un bouquet, un concentrato di profumi e colori. La felicità di chi sta per iniziare qualcosa di suo, sognato a lungo, che poi una volta vicino non s’arriva neppure a credere che sia reale. Perciò era andata spedita nella spiegazione dei particolari. La casa andava bene a qualsiasi condizione. D’Adda si muoveva con fiuto. Aveva già pensato a fondo ogni particolare, e quando arrivava a stringere l’affare era finito. Fu quel giorno che, nel congedarsi, ad Elisa scivolò per la prima volta lo sguardo sul quadro. Stava per mettere piede sopra la linea della porta quando il collo si torse più che poté. Vide un insieme di case. Forse. Niente di più. Però stavano strette strette, e scendevano al mare. La casa dove sarebbe finita lei, invece, al confronto era un castello, con parco attorno e nessuno, nessuno vicino. Un brivido l’attraversò, per la prima volta fu sorpresa dalla solitudine. Ma come? stava per sposare l’uomo dei suoi sogni e aveva bisogno di qualcun altro?
Nel secondo incontro D’Adda fece una serie di questioni che non finivano mai: il lastrico, la faccenda dei confini, poi il catasto. Chi era questa ragazza? Un particolare l’aveva colpito. Quando era entrata, la prima volta, non s’era lasciata impressionare, era andata dritta alla soluzione come se il mondo attorno non esistesse. Questa pulizia, quest’assenza di interferenze di destini altrui l’aveva affascinato. Lui aveva mai annusato qualcosa di simile?
Ed eccoli al terzo incontro.
Elisa di nuovo era sprofondata nel quadro, e pure quando s’era mossa da lì era come non ne fosse venuta fuori. Sostare tra quelle case le faceva sentire qualcosa che le era sfuggito. D’Adda era più strano che mai. Le carte erano scritte. Nero su bianco la faccenda era conclusa. I sigilli irremovibili. Aveva teso la mano al mazzo di chiavi che sul tavolo luccicava, rinviando nella stanza i riflessi dei lumi di strada. Prese questo tesoro e lo passò nelle mani di lei.
Le mani si urtarono. Due barche che rischiano di speronarsi, poi una corrente le rigira, le mette bordo a bordo, vernice contro vernice, vernice su vernice. I due giovani si accomodarono sul divano del salottino e da lì non si alzarono sino all’alba.
Le quattro, quattro i rintocchi a poche strade da lì. Elisa tremava. Una metà di lei ragionava. E l’altra, invece, anticipava quello che sarebbe accaduto.
– Ma… ma… che hai fatto? – La ragione le urlava che era venuta lì, a ricevere delle chiavi e di una casa! Che questa casa la pensava da che nemmeno conosceva i battiti del cuore! E lei? A porte aperte lasciava quella casa prima ancora di…? Se solo sapesse… –
Ma un’altra voce si andava liberando:
– Ma che! che pazza che sciagurata! Non l’hai sentito il respiro di lui… be’ di’ un po’, quel respiro non sapeva di mentuccia? Un’aria che avresti respirato per ore, te ne ricordi? Da bambina, nei giorni di festa uscivi al mattino con un fazzoletto in testa come unico riparo e ti pareva l’elmo per conquistare il mondo. Il mondo era una campagna con le creste luccicanti al sole. Il mondo era mentuccia! E poi? l’hai più sentito, quel profumo? –
Era successo che proprio quella notte l’aveva riannusato. Così, d’improvviso. Aveva sussultato sentendo addosso delle mani che le si erano poggiate come raggi, senza che una nuvola soltanto li scollasse. A mo’ di un solletico leggero. Parlavano del mare di Genova, delle case che ci scendono a grappolo, e poi, dietro quelle case, della paura, della paura di avere una casa, cento case e non avere il mare. Di non avere gli occhi per vederlo. Così, averlo perso di vista. Uno cresce e può perdere l’orizzonte.
Quando il giovane si risvegliò, si stropicciò gli occhi e ci mise un po’ a realizzare dove si trovasse. Aveva dormito profondamente e aveva sognato.
Si trovava, nel sogno, poco più che ventenne, al mercato del pesce di Genova. L’odore del sangue nelle vasche di marmo. La folla che spintonava. Sudore. Le voci forti, la mischia. C’era una ragazza, a un bancone. Le donne le indicavano la merce e lei pareva rispondere con gli occhi. Le sue braccia si muovevano con grazia e da un lato dondolava una treccia spessa quanto una cima, scolorata al sole, di bimba. Gettata tra la folla, quella cima, tra lei e lui. Una scia di avvicinamento. E lui voleva avvicinarsi, ma appena tentava quella direzione una forza contraria lo tratteneva. Con un urlo si svegliò.
È difficile guardarsi di soprassalto, la notte. E così capitò ai due giovani quando si girarono l’uno verso l’altra, sul divano. Diversi. E quando ci si è guardati, diversi, lo si è fatto senza ritorno. Non si può più ignorare di essersi fermati ad urlare in un mercato del pesce, tanto meno far finta di non aver respirato l’odore dell’aria.
Complimenti! Questo racconto, dall’inizio alla fine, mi ha davvero emozionato e continua a farlo ogni volta che lo rileggo … davvero bello e la scrittura è perfetta!
Ti ricorderai forse a che periodo è legato… il ritorno dalle Azzorre… proprio il periodo in cui siamo state più unite, in esperienze di vita simili… È la nostra storia di amicizia che mi commuove.