Finisco la mia camminata sportiva qui, in questo porto di una città di provincia. E non faccio caso a cosa significhi approdare. Per me è solo il tempo tecnico del defaticamento. Respiro ruotando le braccia indietro, quasi nuotassi a dorso nel mare d’aria. Ma dopo alcune di queste volute mi rendo conto, d’improvviso, di dove sia finita. Il sole sta tramontando, un rosa paralizzante mi inonda lo sguardo, impossibile ignorarlo. Dalle banchine l’acqua calma lascia emergere l’ombra leggera delle barche. E dall’interno risale anche la mia. Un porto, l’abbraccio che tutti vogliamo a fine corsa. C’è silenzio qui, c’è pace. Ma sento le voci del mare, quelli che tornano e quelli che aspettano. È una danza perfetta, come il ritmo di una giornata, il sole non sbaglia l’ora della scomparsa. Così dovrebbe essere per noi, dovremmo avere quell’orologio sincronizzato, a volte succede. E l’abbraccio placa. Dà un senso rotondo alla vita, senza chiudere l’orizzonte accoglie. Se mai dovessi eleggere un posto, come il mio, direi un porto. Di quelli che nella tempesta agogni. Una casa sull’acqua, aperta, dove la sera tornare, col rosa in faccia, il cuore che batte.
Un porto di carne, sono io, sei tu.
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